LA LINEA SOTTILE TRA IL TENTATO OMICIDIO E LE LESIONI PERSONALI

Tentato omicidio, univocità degli atti: Cassazione penale sezione I 31 agosto 2017 n. 39749

La vittima di un reato che lede l’integrità della persona offesa può effettivamente molto spesso correre il rischio di morire in conseguenza dell’azione delittuosa compiuta in suo danno. Giuridicamente la fattispecie non è  facilmente inquadrabile nel tentato omicidio, poichè il codice penale prevede espressamente che siano punite le lesioni (aggravate di cui all’art. 581 comma 1 n. 1 c.p.) che mettono in pericolo di vita la persona offesa. 

E’ sintomatico che dal punto di vista logico e giuridico si debba avere riguardo al fatto storico al precipuo fine di incasellare la fattispecie incriminata.

Nell’ottica difensiva la differenza tra le due figure di reato (tentato omicidio o lesioni aggravate) è ovviamente di grande importanza posta la differenza sostanziale della pena astrattamente irrogabile, nel caso di lesioni aggravate da tre a sette anni di reclusione, mentre nel caso di tentato omicidio la pena è non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.

La corretta chiave di lettura dell’evento reato, e dunque la sua esatta qualificazione giuridica, deve essere operata alla luce di un’analisi attenta della dinamica dei fatti verificatisi in maniera tale da:

  • valutare concretamente la vita della vittima sia mai stata in pericolo;
  • verificare che gli atti siano effettivamente stati di tal natura da ledere potenzialmente il “diritto alla vita” della vittima;
  • valutare se effettivamente il reo sia stato oggettivamente animato da quello che si definisce animus necandi, ovvero se dal punto di vista soggettivo vi era  la volontà – messa in pratica con mezzi idonei in modo non equivoco – di uccidere la vittima.  Evento che, evidentemente, non si è verificato e che avrebbe realizzato il reato di omicidio – consumato – e non solo tentato.

Se in relazione alla prima voce (oggettivo rischio di morte della vittima per idoneità degli atti) la scienza medica permette di arrivare a delle conclusioni tutto sommato “certe”; in riferimento all’animus necandi (proprio del tentato omicidio) si tratta di definire una pulsione ed una volontà dell’offender ovvero di interpretare un moto dell’animo che – in alcuni casi – è assai prossimo e difficilmente distinguibile da quello che anima il feritore che mette in pericolo di vita la vittima.

In tema di tentato omicidio o lesioni colpose, si è espressa la Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 39749/2017, affermando che “per la sussistenza del tentativo di reato ex art. 56 c.p., il requisito dell’univocità degli atti va accertato ricostruendo, sulla base delle prove disponibili, la direzione teleologica della volontà dell’agente quale emerge dalle modalità di estrinsecazione concreta della sua azione, allo scopo di accertare quale sia stato il risultato da lui avuto di mira, sì da pervenire con il massimo grado di precisione possibile alla individuazione dello specifico bene giuridico aggredito e concretamente posto in pericolo”.

Ne discende che il requisito dell’univocità degli atti, così come prefigurato dall’art. 56, comma primo, cod. pen., pur incidendo sulla valutazione dell’elemento soggettivo del reato di volta in volta contestato, deve essere accertato sulla base delle connotazioni materiali della condotta illecita, nel senso che gli atti posti in essere dall’imputato devono possedere, tenuto conto del contesto in cui sono inseriti, l’attitudine a rendere manifesto il proposito criminoso perseguito, desumibile sia dagli atti esecutivi sia da quelli preparatori dell’azione (cfr. Sez. 2, n. 46776 del 20/11/2012, D’Angelo, Rv. 254106; Sez. 2, n. 40912 del 24/09/2015, Amatista, Rv. 264589).

In particolare, si valuteranno tutti quei parametri dell’azione – quali mezzi usati, direzione l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l’azione cruenta – che verranno interpretati secondo un processo logico quali concrete manifestazioni della sussistenza (o meno) della volontà di uccidere dell’agente.

Sul punto si è recentemente pronunciata la Sezione I^ della Corte di cassazione con la Sentenza n.46258 dell’8 – 28 novembre 2012 che così ha specificato:

” Ai fini della diversa definizione del fatto materiale nel reato di lesione personale e in quello di tentato omicidio così come avviene in genere per tutti i casi di reato progressivo, deve aversi riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva. Nel primo reato, l’azione esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel secondo vi si aggiunge un quid pluris che, andando al di là dell’evento realizzato, tende ed è idoneo a causarne uno più grave in danno dello stesso bene giuridico o di un bene giuridico superiore, riguardante il medesimo soggetto passivo, non riuscendo tuttavia a cagionarlo per ragioni estranee alla volontà della gente. Mentre, sotto il profilo soggettivo, in mancanza di circostanze che evidenzino ictu oculi (immediatamente N.d.r.) l’animus necandi, la valutazione dell’esistenza del dolo omicidiario può essere raggiunta attraverso un procedimento logico di induzione da altri fatti certi, quali mezzi usati, direzione l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscano l’azione cruenta”

 

Pubblicato da AVVOCATO ALESSANDRO BAVARO

STUDIO LEGALE N. 0964311854

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